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Jérome SAVARY



Jérôme Savary (Buenos Aires, 27 giugno 1942 – Levallois-Perret, 4 marzo 2013) è stato un attore, regista e commediografo argentino.
Nel 1965 si stabilì a Parigi dove entrò nel gruppo di Fernando Arrabal, del quale allestì Il labirinto (1966) giungendo alla sua prima affermazione. Nel 1968 formò la compagnia Grand Magic Circus, giunta a fama internazionale per lo stile molto particolare, tra fiaba, mito e realismo. Ha proseguito un'intensa attività, con regie di musical (Cabaret, 1988; La rivoluzione francese, 1989; Metropolis, 1989; Zazou, 1990, di cui è anche autore), la trasposizione per il teatro di Asterix il Gallico (1988), la regia di Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare (1990), di Fregoli (1991), e dell'Attila di Verdi (1991). Nel 1994 ha diretto la sua prima commedia, L'importanza di essere onesto, di Oscar Wilde e il suo impegno è proseguito con Madre coraggio (1995) di Brecht. Dal 1996 dirige il Teatro nazionale di Chaillot.
Jérôme Savary è stato direttore dell'Opéra-Comique dal 2000 al 2007. Il 27 giugno 2007 gli è subentrato Jérôme Deschamps.
È scomparso nel 2013 all'età di 70 anni a seguito di un tumore.


ARROGANTE? SPASSOSO? MA E' SAVARY

In un mondo di cicale e formiche, Jérome Savary, teatrante dell' irrisione e della festa, dominerebbe senz' altro il primo gruppo. Ma il cinquantenne fondatore del Grand Magic Circus, un faccione gioviale annunciato dall' accessorio fisso di un sigaro da plutocrate, è una cicala insicura, di conflittive aspirazioni. Non solo perché è un bon vivant assediato dal rimorso, tanto nel suo tenace e disperato tentativo di dimagrire smettendo di bere quanto nei suoi inattendibili propositi monastici (ritirarsi in un eremo in campagna, bando ai successi e ai guadagni).
Ma perché al di là del gioco in technicolor, del gusto per il grottesco, del sensazionalismo da circo o da fiera, del mélo spudorato, del vizio di lanciare in scena la magia e i suoi artifici, puntando sulla complicità, come un illusionista; al di là, insomma, di quell' apparato di eccessi che fa il suo teatro, si cela un ansioso complessato, incerto nell' euforia, vulnerabile nella gloria. E perseguitato dalle paure: essere sempre e solo un saltimbanco, "perché nessuno mi prende sul serio". Meritare, da eterno istintivo, il disprezzo degli intellettuali. Essere scoperto, prima o poi, come un impostore: "E' il panico dell' autodidatta: che ' loro' , un giorno, se ne rendano conto: capiscano chi sono, da dove vengo". Però, che meraviglia, confessa, "continuare a stupirsi vedendo che l' imbroglio funziona". Da qualche tempo l' enfant terrible, profeta dell' immaginazione al potere, è stato promosso direttore di un teatro nazionale, Chaillot, che fu di Jean Vilar, Georges Wilson, Patrice Chéreau, Antoine Vitez. Ma neppure quest' inatteso inserimento nell' establishment, grazie al quale ha meritato il soprannome di ' pazzo di Chaillot' , pare proteggerlo dalle vertigini vittimistiche: "C' è chi mi odia, chi mi rimprovera di riempire le sale. Ma c' è qualcosa di rassicurante nei miei persecutori. Le persone che mi detestano restano sempre fedeli all' antipatia che ispiro loro". A quest' inferno Savary non sa sfuggire: croce e delizia, il teatro è destino, disciplina necessaria. Arte effimera ed ecologica ("biodegradabile, non lascia tracce"), per il regista è l' unica possibilità d' esistenza, il senso stesso della sua identità. Così ogni giorno, per il regista inquieto, la vita vera inizia alle 20.30, l' ora fatidica in cui il sipario, con un frisson d' angoscia, narcisismo e eccitazione quasi erotica, s' apre a offrirgli spazi e tempi nuovi. S' intitola perciò Ma vie commence à 20.30 il diario anarchico, spassoso, caotico e arrogante che Savary ha appena dato alle stampe (edizioni Stock/Laurence Pernoud, pagg. 293, franchi 98), mescolando aneddoti a riflessioni, autocritiche a memorie. Vi campeggia un inguaribile burlone, nato in Argentina e protagonista di un' infanzia da film western, in un ranch della pampa, tra un padre che sapeva tutto di stelle e praterie e una mamma sempre a cavallo, svagata e libertaria, che si consola della separazione dal marito imbarcandosi coi suoi bambini su una nave per la Francia. A sei anni Jérome è un selvaggio, con polpacci da ciclista per le corse nei campi e un interesse precoce per le signore. Sogna l' arte, "per non abbandonare mai l' infanzia", e quando vede Delphine Seyrig a teatro ne è folgorato: "Come se scoprissi la donna per la prima volta". Nel villaggio in cui vive s' ubriaca di cinema e brama Parigi: "Come resistere in un paesino dell' Alta Loira di fronte a Gary Cooper che galoppa nel Grand Canyon, a Marilyn che scende dall' autobus a Los Angeles, a Charlot che scopre le luci della città?".
E' poco più di un adolescente quando, nella capitale, l' amore gli si presenta in forma di ballerina del Marquis de Cuevas, profumatissima e con una stanza turgida "come la caverna di Alì Babà". Impara la musica con Martenot (bizzarro inventore di uno strumento che porta il suo nome), la pittura alle Belle Arti, la letteratura con un professore sempre ubriaco nei bistrots di Passy. Suona la tromba in una banda, fa l' entraineur sulla Costa Azzurra, fugge a New York e s' innamora dell' alcol, del jazz e di innumerevoli fanciulle. Conosce Thelonious Monk, sacerdote del jazz "che piantò in asso la famiglia perché sorprese i suoi bambini che ascoltavano un disco dei Beatles". Diventa l' autista della vedova di Charlie Parker, "completamente pazza", e incrocia Lenny Bruce, un uomo triste "che beveva ettolitri di birra schiacciando le mosche". Attraversa le Ande, fa la recluta in Argentina, installa latrine per l' esercito, balla il tango con Astor Piazzolla, si fidanza con un' ereditiera che gli preferisce il trip mistico. Rientrato a Parigi, si scopre scenografo in un Ubu Re di Victor Garcìa. E' l' illuminazione: "O il teatro o niente". Nel ' 65 fonda una sua compagnia, ma lacerato dai debiti si trova a far di tutto, dai fotoromanzi ai jingles per la pubblicità. Lo salvano Arrabal, che lo ingaggia per il suo Labyrinthe, e Helen Stewart che lo invita al La Mama di New York. Il debutto dello spettacolo cult del Grand Magic Circus, Zartan, frère mal aimé de Tarzan, quasi il manifesto di una generazione, provoca un delirio di consensi nella Città Universitaria del post-' 68. Senza fede né legge, il pirata Savary è già divo mentre comincia appena "a prender coscienza di avere uno stile".
Persino la monarchia perde la testa: al Festival di Shiraz, lo Scià di Persia è sedotto. La Londra più alla moda intanto è ai suoi piedi: Christopher Lee gli offre servigi da vampiro e i Beatles, "biancovestiti come sulla copertina di Abbey Road", gli chiedono il segreto del "Savary sound". Intrecciati al flusso delle mogli (almeno tre) e dei figli (almeno tre), s' affastellano gli happenings sempre più rigorosamente organizzati: Good Bye Mister Freud, Cyrano, Super Dupont, La Femme du Boulanger, L' Histoire du cochon qui voulait maigrir, Les Milles et une Nuit. Fino a Bye Bye Show Biz, spettacolo d' addio del Grand Magic Circus. Poi, tra un Asterix al Cirque d' Hiver e uno Shakespeare per Avignone, un remake di Cabaret per il teatro Mogador (con la scoperta di Ute Lemper, "nuova" Dietrich, per cui ha appena sceneggiato il musical L' angelo azzurro in scena in questi giorni a Berlino) e le commedie musicali in omaggio ai suoi miti (James Dean per La Légende de Jimmy, Marilyn per Marilyn Montreuil), arrivano le frequentazioni con la lirica: Offenbach e Mozart, Rossini e Cherubini, Strauss e Lehar, Bizet e Stravinskij, Prokofiev e Verdi. Vorace e frenetico, l' avventuriero della messa in scena non demorde. Vive in ebollizione la sua quotidiana corrida: scatta alle 20.30, finalmente, quando il miracolo del rischio si rinnova: "come la ' cynco y punto de la tarde' per il torero". Solo in quel tempo sospeso della scena, la cicala ansiosa si sente assolta e si placa.
di Leonetta BENTIVOGLIO



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